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 IL VILLAGGIO MINERARIO


Le abitazioni, poco più che baracche, venivano concesse in affitto, dietro corrispettivo di un modestissimo canone, non certo per spirito filantropico, ma per la semplice ragione che, non esistendo mezzi di trasporto idonei, costituivano la inevitabile soluzione di un problema logistico. La maggior parte dei “minatori“, però, preferiva affrontare la fatica di un’ora o due di cammino, pur di non abbandonare le abitazioni situate nei paesi circostanti e in questo modo alle otto-dieci ore di duro lavoro aggiungevano anche le due o tre orette di “viaggio”, tra andata e ritorno. Nell’assegnazione degli alloggi si dava priorità ai minatori sposati e ancor più, naturalmente, si favorivano le famiglie numerose.

Le abitazioni, nella quasi totalità, erano a un solo piano e comprendevano non più di due o tre vani. I residenti le chiamavano “cameroni”. Le facciate esterne erano dipinte di rosso, giallo, bianco, verde....Venivano individuati come “cameroni rossi”, “cameroni bianchi”, “cameroni gialli”.... Le case erano affiancate le une alle altre, quasi villette a schiera. La provenienza geografica era la più svariata, ma in quel contesto i residenti presero parte – in maniera del tutto inconsapevole – a un esperimento urbanistico e sociologico notevole. Vivere forzatamente a stretto contatto gli uni con gli altri eliminava del tutto la residuale differenza che derivava dal ruolo aziendale svolto dai capi famiglia – operai generici, specializzati, capi squadra, carpentieri, minatori, manovali – e si accettava facilmente la necessità di una costante collaborazione, più che mai indispensabile considerando la mancanza di servizi essenziali reperibili esclusivamente nei pressi dei centri direzionali e quasi del tutto assenti nei vari cantieri periferici. Anche la classe sociale di provenienza - quella affollatissima di poveri disperati, alla ricerca di un presunto Eldorado minerario – costituiva un altro elemento omogeinizzante. Si trattava di un vero microcosmo di diverse etnie provenienti da tutti gli staterelli sorti nell’ultimo millennio sul territorio della penisola italiana, poi unificati da quella forzata unità risalente al quart’ultimo decennio del 1800. Piemontesi, lombardi, veneti, toscani, siciliani, sardi del capo di sopra e del capo di sotto, tutti ancora lontanissimi dall’essere pervasi da quella italianità che solo qualche guerra aveva tentato di accelerare. L’impronta mineraria – quasi un imprinting – è stata talmente solida e duratura che a distanza di sessant’anni dall’abbandono delle attività estrattive, esistono numerosi e nutriti gruppi facebook che raccolgono gli ultimi lacrimevoli ricordi dei figli di Montevecchio e di Ingurtosu, ma - c’è da credere – di tutti gli ex bambini nati nei villaggi minerari o che in quei luoghi hanno vissuto la loro infanzia: bambini oramai nonni e nonne.

Ma torniamo alle abitazioni del villaggio minerario. Intendiamoci, non è che le case nei paesi della Sardegna, all’epoca, fossero dei capolavori urbanistici, tutt’altro. I paesi circostanti la zona mineraria erano il risultato di una scelta urbanistica che nulla aveva da spartire con le idee del barone Hausmann ... Si trattava di un ammasso informe di misere casupole che si affacciavano tristemente ai lati degli “stradoni”.

Stradoni venivano chiamate le tratte “urbane” delle strade provinciali o statali che scorrevano lungo i paesi e che di questi costituivano l’unica vera arteria percorribile dal variopinto traffico che si può immaginare prevalentemente animale, come a dire animale vero e proprio e umano. Scorrevano gli stradoni come fossero dei fiumi e, come tutti i corsi d’acqua della Sardegna, se presentavano un aspetto tranquillo, placido e stagnante nei lunghi mesi asciutti, divenivano invece impetuosi torrenti fangosi durante e dopo le abbondanti piogge invernali. E come fiumi venivano alimentati dagli affluenti di sinistra e di destra, cioè quella rete intricatissima di vicoli e vicoletti, che fungevano da canali di raccolta delle acque. Questo vasto delta si ramificava per l’intero paese a formare un inestricabile labirinto, noto solamente a chi vi abitava. E questa frequentazione riservata solamente a coloro che abitavano nelle strettissime viuzze del vicinato, costituiva, in un modo o nell’altro, anche una sorta di network antirapina. La rete delle conoscenze era talmente organizzata che non solo le persone, ma anche i gatti e i cani erano additati quali forestieri, facendo scattare in un baleno l’informazione porta a porta “ma di chi sarà quel cane” oppure “un gatto così nero non l’avevo mai visto da queste parti”. Figurarsi poi se a bighellonare era qualche giovinastro, discolo o sfaccendato, che magari si ritrovava a passare da quelle parti con la balorda idea di entrare in un cortile o in una casa...

Questi i pensieri e i timori ricorrenti, tranne poi scoprire che il giovanotto voleva semplicemente farsi notare, mentre fumava, dalla belloccia del quartiere, per meglio dire, del vicinato.( Tratto  da La promessa  incluso nell'antologia  I racconti di Frailis  - Amazon 2022)





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