Nonna Lucia (dalla raccolta I racconti di Frailis - Amazon libri)

 Di nonna Lucia, la mia nonna paterna, è rimasta una sola foto, in bianco e nero, un poco sfuocata, fatta con la mia prima macchina fotografica, una modestissima Ferrania, poco più di un giocattolo. Quel ritratto è l’unico documento iconografico che rimane, a corredo di una vita lunga ottantaquattro anni. Perdurerà ancora a lungo, dal momento che, con i necessari ritocchi, è stata utilizzata per il ritratto ovale della lapide nel cimitero del paese. Alla richiesta se voleva essere fotografata, dopo qualche tentennamento, acconsentì. In fin dei conti almeno una foto per il cimitero devo pur avere. Una sedia che pareva si tenesse insieme solo grazie a una mezza dozzina di strati di vernice azzurra, faceva al caso mio; giusto complemento per la scenografia che avevo pensato. C’era il problema del vestito: il guardaroba della nonna era veramente ridotto all’essenziale. Decise comunque che il vestito da casa poteva andar bene con l’aggiunta di un grembiule bianco e il fazzoletto marrone, quello nuovo, annodato sotto il mento alla moda sarda. Tentai di far partecipare all’evento fotografico anche l’onnipresente Buginu, l’inseparabile gatto che dimorava presso la nonna; ma il mio tentativo e neppure le insistenze della nonna andarono a buon fine. Quel demonio di un gatto non ne volle sapere di mettersi in posa, accovacciato sulla sedia. Al diavolo il gatto. Nuova didascalia: ritratto di nonna con sedia azzurra e senza il gatto. Nonna Lucia si sposò due volte. Il primo marito, Pietro, compare nel lungo elenco di caduti per la Patria che” sacrificarono le loro giovani vite nella Grande Guerra del 1915 - 1918 che vide l’Esercito Italiano cacciare definitivamente dal suolo patrio l’usurpatore austro-ungarico”. Bella lapide, in marmo, con i nomi dei duecentoventi morti in combattimento; nomi che sono stati impressi con caratteri di bronzo tutt’intorno al cippo del monumento ai caduti; nomi che stanno scomparendo dal momento che numerose lettere si sono staccate ed è arduo ricomporre i dati anagrafici; nomi che sono comunque scomparsi, già da lungo tempo, dalla memoria dei frailesi. Scomparsi i nomi, dimenticati gli eventi, sconosciute le motivazioni, ignorati, e non da oggi, i drammi vissuti da chi combatteva e le sofferenze di chi restava e lottava per sopravvivere. E certamente i pianti, le urla di dolore, lo strazio dei feriti, il terrore che la quotidiana tempesta di piombo potesse rovesciarsi proprio là, in quel punto della trincea dove i fanti stavano rannicchiati, a difendere la loro posizione, certamente tutte queste tragedie non potevano essere scritte in quel cippo. Ma quelle urla e quei pianti sicuramente riempivano le valli sottostanti, per giorni e notti interminabili; perché i nostri eroi urlavano e piangevano e non basta la retorica sciorinata in questi ultimi cento anni per cancellarli, quei pianti, quelle urla. Anche nonno Pietro, eroe senza saperlo, eroe  senza volerlo, cadde straziato dalle schegge di una granata esplosa a qualche metro di distanza. Il corpo? Chissà dove avranno tumulato i suoi poveri resti, chissà se li avranno ritrovati… Alla nonna, un pomeriggio di marzo del 1917, venne comunicata la notizia del decesso di suo marito, in combattimento. Non che facesse differenza per lei , vedova a 29 anni, con due figli di quattro e sei anni (mio padre), sapere che Pietro era morto in combattimento, ma il maresciallo dei carabinieri che le recò il telegramma e che le lesse il testo, ci tenne a precisare caduto in combattimento nell’assolvimento del suo dovere. E fece bene a leggerglielo, il testo, perché per lei tutti quei segni confusi non significavano assolutamente nulla. Non avrebbe più rivisto il suo Pietro né da vivo né da morto, e subito, d’istinto, allontanò i due piccoli che stringevano i lembi della sua gonna. E senza nemmeno stringere la mano che timidamente il maresciallo le offriva, la nonna come un animale ferito a morte, dapprima s’inginocchiò sull’acciottolato del cortiletto, poi si ripiegò su se stessa e furiosamente incominciò a battersi la testa, il petto, le ginocchia e non bastando ciò emise una serie di urla disumane, disperate, mentre si fece rotolare per terra quasi a voler essere inghiottita da quella maledetta terra, quasi a voler sparire, ad annullarsi. E i suoi figlioletti, terrorizzati da simile strazio, accompagnarono con i loro pianti le urla della loro mamma e inutilmente cercarono il suo sguardo; a vuoto invocarono le sue braccia. Troppo grande la disperazione, il dolore, il vuoto. Il maresciallo, sebbene abituato a simili scene, ogni volta che era costretto a simili incombenze, non trovava parole, e nemmeno le cercava. Si allontanò in silenzio facendosi strada tra il gruppo già numeroso delle comari del vicinato subito accorse: quelle strida e quei pianti erano chiari segnali di morte. Uno stuolo di prefiche si accingeva a una scena funebre, che da lì a poco avrebbe preso l’avvio, per poi proseguire in interminabili giornate nella vana attesa del corpo del defunto. E così, nonna Lucia si ritrovò vedova e con due figli da sfamare. E anche se stessa doveva sfamare… Mio padre, a sette anni dovette badare a se stesso: venne affidato alle cure di un pastore di pecore. L’allevatore aveva su stazzu molto distante dal paese, quasi sulla costa, nei terreni confinanti con la concessione mineraria di Ingurtosu. La lunga distanza impediva a mio padre il rientro a casa se non una volta ogni due, tre mesi: un grande aiuto, per mia nonna,   non avere quella bocca da sfamare. A sette anni si era già grandi, allora! Il secondo dei figli venne affidato alle cure di una zia sposata e senza figli che abitava a Frailis. Il piccolo divenne, come era frequente allora, un fillu ‘e anima, una sorta di affidamento amichevole, ma spesso necessario per trovare conveniente soluzione a una situazione familiare precaria, bisognosa. La nonna, vedova di un caduto in guerra, ottenne il privilegio di avere il posto di lavoro in miniera, nella Laveria di Montevecchio. Pochi soldi; 10 ore di lavoro quotidiano per sei giorni la settimana; alloggio in un camerone (dormitorio che ospitava decine di donne e giovinette) vicino al cantiere minerario; ritorno al paese, distante sette chilometri, ogni domenica, a piedi naturalmente. Passarono gli anni del dopoguerra; arrivò la spagnola col suo pauroso carico di morte... 

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