Alcuni brani di La vera vita (Jean Reverzy)

"L'ospedale, un po' carcere e un po' collegio, era uno di quei luoghi di concentramento sui quali non si rifletterà mai abbastanza. Alquanto inebetiti al momento del loro ingresso, i malati, spogliati subito dei loro panni e rivestiti di una camicia di grossa e ruvida stoffa, venivano affidati a una suora dietro la quale attraversavano le varie corsie con l'aria di Cristo che va al Calvario. Veniva loro assegnato un letto nel quale sprofondavano senza dire una parola. Bastava un'ora perché si abituassero al torpore e all'indifferenza dei vicini; non rimaneva  poi che aspettare il corteo. I più gravi, senza voce, senza gesti e già sottomessi alla medicina, venivano portati in barella. Due o tre originali, eterni pensionanti, golosi di zuppe ospedaliere, stavano lì da anni: si continuava a tenerli senza sapere perché, e il professore Joberton de Belleville sembrava ignorare la presenza di questi saggi che si erano ritirati dal secolo e che durante le ore di permesso facevano una timida passeggiata nel cortile. Altri venivano all'ospedale per morire. Giunto il momento,  delle suore caritatevoli li isolavano dietro un paravento dove potevano agonizzare tranquillamente senza turbare l'ordine della corsia. Quattro stanze erano riservate ai malati personali del Professore il quale li aveva già visitati nel suo studio oppure gli erano stati raccomandati da qualche prete. Una zona di silenzio circondava questi privilegiati: il corteo si fermava un po' prima della loro porta mentre, al loro capezzale, il Maestro e il suo aiuto tenevano dei conciliaboli di cui a noi rimasti fuori non giungeva nemmeno una parola.

Ogni mattina il Professore, seguito dalla sua bianca coorte, si tuffava in quel raduno patibolare al quale una decina di suore e d'infermiere, fin dall'alba, avevano dato un'impronta di Medicina. Il corteo si metteva in moto, raggiungeva una corsia lontana e si fermava davanti a un letto dove veniva fatto un breve inventario, poi si allontanava per riprendere più in là la stessa storia. Dopo di che una suora distribuiva, con un gesto da seminatrice, pillole e polverine: non ho mai saputo se i malati ne traessero qualche sollievo.

Il giovedì non c'era corteo: quella mattina il Professore prodigava i suoi lumi ai malati della città che, molto prima di noi, già all'alba, avevano scalato il pendio della collina e la scalinata babilonica dell'ospedale; fin dall'ingresso qualcuno si occupava di loro. Alla porta del reparto una vecchia suora piuttosto brontolona appuntava con uno spillo su ogni petto un quadratino di cartone con un numero scritto sopra, dato che ai medici non piace chiamare i loro pazienti per nome, segno troppo evidente di un antico stato umano: preferiscono il malato numerato, puro, sublimato e totalmente sottomesso alla Scienza di cui incarnano ovunque la presenza e il mistero. Dopo di che venivano portati in una sala dove, seduti su degli stretti banchi di legno, le mani sulle ginocchia, sembravano degli scolari pensierosi in attesa che arrivasse il Maestro. Una suora amante dell'ordine non li perdeva di vista: toglieva il berretto a un maleducato che lo aveva ancora in testa o raccomandava a un chiacchierone di star zitto.

Quando il loro numero era chiamato, ognuno andava a spogliarsi in uno stanzino poi veniva a sdraiarsi su un letto metallico davanti al Maestro seduto al centro, fra i suoi allievi.

- Dove vi fa male?

 - Dappertutto.

 - In quali momenti soffrite di più?

 - Sempre.

 - Da quando?

 - Non mi ricordo.

Le parole del languido interrogatorio volteggiavano attutite e ricadevano, mentre un'infermiera cronometrava, orologio in mano, scandendo  ad alta voce lo scorrere del tempo: - Nove e trenta ...nove e trentacinque ... nove e quaranta... nove e quarantacinque ... nove e cinquanta... - Il Maestro economizzava gli istanti come i gesti e le parole, e concedeva  dieci minuti a ogni paziente( da: Piazza delle Angosce  trad. Bianca Garufi - titolo originale: Place des Angoisses - Julliard 1956) 

(J. Reverzy - La vera vita - ediz. Einaudi 1964 ) 

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