Harry, nel suo cucinino, mise il latte in frigorifero e rifletté se era il caso di far colazione. Gli era sempre bastato prendere una tazza di caffè: per dopo aveva il pane e la frutta. Era solo per prendersi un po' di tempo e pensare a quello che doveva scrivere. La cosa irresistibile - il pensiero che non era ancora al lavoro gli dava i brividi - era di mettersi immediatamente alla scrivania, ancora, giroscopio, montagna incantata: sta lì ma si muove. Lungo viaggio in una stanza. C'è un lungo libro da finire. Il caffè se lo sarebbe fatto più tardi quando avesse messo giù una pagina piena di parole. Le parole non si mangiano ma ti alleviano la sete.
Entrò nel suo studio a tre finestre, aprì le screpolate persiane verdi senza guardare nella strada e si sistemò alla scrivania. Tolse dal primo cassetto una porzione di manoscritto. Harry provò una momentanea sensazione di perdita, di rimpianto per aver consacrato la sua vita allo scrivere, seguita da un'ondata d'affetto per il suo io creativo mentre rileggeva la pagina e mezzo del giorno prima e la trovava valida, solida, a posto. Il libro lo riscattava. Ancora due o tre mesi e sarebbe finito. Poi una rapida e ultima stesura che avrebbe preso circa altri tre mesi, forse quattro, e il romanzo sarebbe stato pronto. Il trionfo dopo dieci anni esatti. Il peso di una decade gli gravava sulla testa - ma non l'aveva fatta scricchiolare né l'aveva fracassata. La sua povera testa. Harry provò l'impulso d'ispezionarsi la faccia nello specchio del bagno, stanchi occhi grigi spesso iniettati di sangue, labbra utilitarie, increspate, sempre più sottili, pensava, man mano che passavano gli anni, naso interessato, osservatore; ma resisteva con successo. Una faccia è una faccia: cambia. Le parole che lui scrive sulla carta la cambiano. (ediz. Einaudi 1972 - Trad. di FLORIANA BOSSI)
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