Alcuni brani del romanzo LA DANZA DEL DRAGO - catalogo AMAZON

Per contare i printzipales di Montecciu era sufficiente una sola mano; una sola mano bastava anche per contare le giornate buone per Giuseppe; ed erano buone quelle giornate che gli permettevano, dopo dieci ore di zappatura nei vigneti o negli uliveti, di portare a casa un misero salario. Ma occorrevano perlomeno dieci mani per contare gli zappatori che ogni giorno, alle sei e quarantacinque del mattino - minuto più, minuto meno - si radunavano in piazza Funtanedda con la speranza di essere tra i fortunati braccianti assunti come giornalieri e intascare così le solite sei lire e cinquanta. Una miseria. A farla breve, zappare dieci ore al giorno e farlo per cinque o sei giorni in un mese, assicurava il pane (in senso molto stretto), il vino e il formaggio a lui e alla sua compagna Filomena. La giovane moglie a sua volta offriva i servizi di donna tuttofare in una famiglia a torto o a ragione ritenuta benestante, ma che lamentava 1 una costante penuria di denaro. Filomena accettava comunque di buon grado la sua retribuzione (uova, lardo, salsicce, olio e ogni tanto una gallina) non legata ad alcun parametro contrattuale, ma risultante dalla disponibilità dei prodotti che la famiglia dei massajus (agricoltori), dove prestava la sua opera, utilizzava regolarmente come merce di scambio in alternativa al contante. Era quasi un esercito, quello degli zappatori di Montecciu. Ciascuno nel suo logoro tascapane tenuto a tracolla metteva una grossa pagnotta, una corposa fetta di pecorino, mezzo litro di vino rosso. La zappa era portata a spalla quasi fosse un fucile modello G 91 che molti di loro avevano usato rare volte nelle esercitazion di tiro durante il servizio militare e che altri, meno giovani, avevano utilizzato nelle trincee della Grande Guerra, lassù in Italia. Gli uomini uscivano alla chetichella dalle loro misere casupole, rattoppate alla bell'e meglio. Un po' tutti avevano liquidato in maniera approssimativa la rinfrescata del viso e delle mani. Nelle gelide albe invernali - e per di più all'aperto, negli angusti cortili retrostanti le povere e malferme casupole di quel misero villaggio - quell'atto risultava una specie di fulminea funzione vagamente religiosa piuttosto che una quotidiana azione di igiene personale. E tutti avevano sbrigativamente divorato la colazione a base di caffellatte o di caffè allungato assorbito completamente dalle croste di pane raffermo che la padrona di casa, “sa mer'e domu“, provvedeva diligentemente a far sparire dalla tavola la sera precedente, sottraendole così alla prevedibile immersione nei fumanti piatti di minestrone. Quegli uomini - qualunque fosse la loro età - al buio che opponeva un'ultima strenua resistenza all'incombere del mattino, avevano i visi coperti da barbe incolte, ed erano resi ancor più irriconoscibili dal berretto calato a coprire la fronte. Erano vestiti di cenci o poco più, con gli scarponi ferrati il cui ritmato e rumoroso picchiettio sul selciato si sovrapponeva ai timidi guaiti di cani sonnacchiosi, ai precoci tentativi di canto dei galli che, seppure spesso carenti dell'acuto finale, coprivano i sommessi grugniti di adiposi maiali grufolanti, impegnati nella ricerca di improbabili avanzi di cibo e impazienti di rompere il forzato digiuno notturno. Uscivano anche le donne, le più anziane, a passo svelto ma felpato, dirette alla chiesa parrocchiale per assistere alla prima messa, quasi sempre una messa di requiem. L'intenzione della preghiera in suffragio del defunto si univa, da parte delle pie donne, alle invocazioni particolarmente accorate e fervide perché figli e nipoti trovassero un lavoro, anche solo per qualche giornata. La messa mattutina era una messa semplicemente letta dal sacerdote, senza canti; e per di più era una messa breve,officiata in maniera sbrigativa, che trasmetteva alle assidue fedeli una sorta di agitazione interiore. Inquietudine e turbamento che derivavano dall'impossibilità di stare al passo con il celebrante il quale dava spesso l'impressione di voler pervenire al rituale congedo (ite missa est), alla scadenza dei venti minuti dall'inizio della funzione. Se alcune volte la durata si avvicinava alla mezz'ora, ciò era da imputare a quel processo d'imitazione che spingeva il solito plotone di bigotte a ricevere la comunione tutti i santi giorni. E allora avveniva che, per riequilibrare le rimanenti parti della funzione religiosa, don Lilliu aggredisse la parte finale della messa trasformandola in una vera e propria corsa. E così, avveniva che le anziane fedeli rimpiangessero la lentezza che aveva contrassegnato gli ultimi due lustri delle celebrazioni del canonico don Zurru, rallentato più dalla gotta e da alcuni evidenti segnali di artrosi e reumatismi, piuttosto che dal desiderio di stare al passo con i tardivi inserimenti dei partecipanti alla funzione religiosa . Ora, invece, il ritmo frenetico del giovane don Lilliu negava loro gli attimi di intimo raccoglimento e profonda partecipazione che, soprattutto dopo l'eucarestia, costituiva una indispensabile conclusione della messa. Decisamente non era l'atmosfera che si respirava durante la messa domenicale, sa Missa manna,in modo particolare nei profondi silenzi che accompagnavano la consacrazione dell'eucarestia e che consentivano di vivere momenti, seppure brevi, di abbandono quasi estatico Alla messa domenicale, sebbene stonati e non sufficientemente coperti dagli sbuffi scompigliati delle vecchie canne di un antico organo a pedaliera, anche i canti, sconnessi nell'attacco, sconclusionati per l'intera durata e scoordinati nel finale, contribuivano, in modo inspiegabile, all'illusione della solennità. La prima messa dei giorni feriali era co-munque gradita da una buona parte delle fedeli presenti, pur nella sua cadenza affrettata, perché bene si conciliava con gli impegni del mattino, a loro dire, già abbondantemente inoltrato. Si trattava spesso di impegni più fittizi che reali, che quasi tutte le donne declamavano al termine della cerimonia sottolineandoli con una mimica facciale decisamente eloquente e con ampi gesti delle mani diretti a comunicare la loro impazienza unita a una scomposta agitazione mentre si congedavano dalle comari altrettanto vistosamente irrequiete. Si dava quindi inizio a un veloce sgattaiolare accompagnato da sommessi, quasi furtivi saluti. Bastavano pochi minuti per rendere deserta piazza Parrocchia. Liberatosi dai paramenti, don Lilliu cercava inutilmente l'occasione per augurare la buona giornata alle parrocchiane, ma il consueto sia lodato Gesù Cristo, riceveva il complementare sempre sia lodato soltanto da Giovanna, la perpetua settantenne che si faceva carico anche delle pulizie della chiesa. Troppo tardi per salutare le altre fedeli: le donne, avvolte nei loro scialli, avevano già imboccato gli stretti e serpeggianti vicoli, rischiarati appena dalla incerta luce dell'alba, per fare ritorno alle loro abitazioni. Gli orologi ai quattro lati del campanile della chiesa parrocchiale - edificata negli ultimi due decenni del XVII secolo in onore di San Sebastiano che intervenne a salvare gli abitanti di Montecciu dal rischio della loro totale estinzione a causa della peste che imperversò attorno alla metà di quel secolo buio - segnavano le sei e mezza. Per i distratti e per coloro che non avevano - ed erano la maggioranza - la visibilità del campanile, intervenivano a necessario complemento i sei rintocchi lunghi e nitidi e a seguire i due rintocchi smorzati che segnavano i quarti d'ora. Avveniva così che alcune dozzine di abitanti di Montecciu - quasi spinti dalla forza astrale del sole che squarciava le residue nuvole che inutilmente tentavano di ostacolare il suo percorso giornaliero - venivano quasi rinvigoriti da una sorta di fluido invisibile che forniva le necessarie energie per affrontare il nuovo giorno. Ma a non tutti riusciva facile annullare le inevitabili resistenze, sì da poter superare l'atavica indolenza della gran parte degli abitanti di Montecciu che, abituati a giorni, stagioni e anni di neghittosità, indossavano senza recalcitrare l' abito consunto del povero diavolo rassegnato a una vita priva di qualsiasi progetto, desiderio o inizitiva , schiacciati e annichiliti da un ambiente pietrificato nella ferrea stratificazione sociale. Un'eredità dei quattro secoli di dominazione aragonese prima e spagnola poi, e rinvigorita dagli altrettanto distratti occupanti calati, malvolentieri, dal Piemonte? Il traffico mattutino animava contemporaneamente e per una buona mezz'ora l'intricata ragnatela delle viuzze del paese: donne che rincasavano dopo la messa, aspiranti zappatori, allevatori che si recavano agli ovili per dare una mano al servo-pastore per la mungitura di pecore e capre, mezzadri nelle numerose vigne e orti disposti a corolla e confinanti con l'abitato. Si trattava di una prima ondata che conferiva al paesaggio un aspetto dinamico sebbene silenzioso, in attesa che, attorno alle otto una seconda sequela - più ciarliera e assai frettolosa - animasse il centro del paese. Questa seconda ondata era costituita dalle donne che si recavano nelle abitazioni dei maggiorenti del paese per prestare il loro servizio domestico, dei pochi scolari che frequentavano le prime tre classi delle scuole elementari, dei pochi bottegai e dei primi avventori dell'unico bar di Montecciu .

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