BREVE STORIA DELLA SARDEGNA

LA SARDEGNA SABAUDA. Il trattato di Londra del 1718, perfezionato all’Aja due anni dopo, prevedeva che Vittorio Amedeo II di Savoia (noto con il nomignolo di Volpe Savoiarda) cedesse all’Austria la Sicilia in cambio della Sardegna e del titolo di Re ad essa pertinente. Seguì anche la legittimazione e il riconoscimento da parte della Chiesa del nuovo assetto, ma il “Re di Sardegna” manifestò subito la sua insoddisfazione per la modestia dell’acquisto. Tale malcontento si palesò subito dopo l’acquisizione dell’Isola e venne legittimato dalle relazioni che il primo Viceré, Filippo Guglielmo Pallavicino barone di Saint Remy, inviava alla corte di Torino: “… la noblesse est pauvre, le pays miserable et depeuplé, le gentes sans aucun commerce…”. Decisamente un quadro piuttosto sconfortante (“nobili poveri, paese miserabile e spopolato, abitanti senza alcuna attività”) cui si aggiungeva un clima notoriamente malsano che a causa delle febbri malariche mieteva centinaia di vittime all’anno. Numerose le criticità legate al nuovo possesso e tutte da affrontare e risolvere per permettere un integrale assorbimento del Regno di Sardegna nello Stato sabaudo. Apparve subito chiaro che la collocazione giuridica dell’annessione non poteva ignorare il fatto che la Sardegna avrebbe continuato a godere di quella autonomia che, almeno formalmente, le proveniva dagli ordinamenti precedenti. Occorreva procedere gradualmente. Primo dei problemi che Amedeo II e il suo governo dovettero affrontare era rappresentato dall’esistenza di un consistente numero di feudi (circa la metà dei paesi e villaggi) in mano all’aristocrazia spagnola che, inutile dirlo, non aveva di certo gradito il passaggio dell’Isola alla Casa Savoia e che si dimostrò poco propensa al dialogo. L’aspetto riguardante l’ingombrante presenza della feudalità di origine spagnola, venne subito affrontato dai nuovi governanti, ma senza che si pervenisse a una soluzione globale concordata tra la Spagna e la Savoia. Si perfezionarono delle transazioni private tra antichi titolari dei diritti feudali e facoltosi aristocratici piemontesi, ma i contratti stipulati non furono numerosi. Un altro aspetto decisamente negativo era rappresentato dalla poca disponibilità subito palesata da parte del clero sardo a collaborare con le nuove autorità. Questa opposizione venne in parte attenuata con un accordo stipulato tra Casa Savoia e la Santa Sede, nel 1726, che regolamentava le nomine ai vescovadi in senso favorevole alla Stato sabaudo riconoscendo al Re di Sardegna il ruolo di protettore della chiesa con la facoltà di proporre candidature ed esprimere il proprio gradimento delle designazioni alle più alte cariche religiose. Venne anche ribadita la regola (già applicata in epoca spagnola) che i vescovi fossero scelti tra il clero locale e che gli arcivescovi venissero scelti tra il clero “continentale”. Alle difficoltà incontrate dai nuovi governanti nella gestione dei rapporti con i feudatari spagnoli e con il clero fortemente ostile, si aggiunse la consapevolezza che il livello di povertà dell’intera Isola non avrebbe garantito né un importo soddisfacente né una regolarità di entrate al fisco. La parte più rilevante delle entrate per le casse erariali era comunque rappresentata dal donativo (la cui istituzione risaliva al XV secolo, durante la dominazione spagnola). In origine l’importo del donativo veniva proposto al sovrano dall’assemblea degli Stamenti (Parlamento); durante il periodo sabaudo l’importo triennale era invece frutto dell’accordo diretto tra il Viceré e i tre più importanti esponenti (Voci) dell’antico Parlamento sardo, cioè l’Arcivescovo di Cagliari, il Feudatario di più alto rango e il rappresentante di Cagliari. Le altre entrate fiscali provenivano dai dazi sulle importazioni e le esportazioni (formaggio, pelli, lana, frumento). Non mancavano le difficoltà dovute all’enorme distanza (dati i mezzi di comunicazione dell’epoca) che separavano l’Isola dai territori piemontesi. I vantaggi che la Casa Savoia poteva ottenere dal nuovo acquisto territoriale si palesarono, dunque, subito modesti, e nel contempo apparve precaria la situazione dell’ordine pubblico a causa di una diffusa criminalità organizzata, soprattutto nelle zone settentrionali, in bande che seminavano terrore da lungo tempo. Nel 1736 prese possesso della carica di viceré, il marchese di Rivarolo che si propose una sistematica azione di repressione del banditismo, con il ricorso a truppe dell’esercito, con l’occupazione dei villaggi dove era in atto una qualche faida o dove si pensava esistessero delle complicità tese a favorire i ricercati. Il Rivarolo sintetizzò con una formula molto semplice quello che era il comune sentimento dei nuovi dominatori nei confronti della società sarda (quella dell’interno, naturalmente): pastori = banditi = insicurezza = povertà. La soluzione di questo problema era piuttosto semplice, agli occhi del viceré: occorreva una legislazione straordinaria, una lotta decisa e spietata cui far seguire condanne immediate ed esemplari. La legislazione straordinaria mirava a colpire le persone e a modificare leggi, costumi e consuetudini.

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