POVERA GENTE - Un breve racconto

Povera gente. La marcia verso il luogo di riunione con passi accelerati provocava un inconfondibile e ritmico suono metallico causato dalle suole ferrate, che veniva ancora più amplificato dalle contorte budella delle strettoie, dei vicoli e delle stradine che si snodavano lungo il percorso prima di confluire nello stradone che portava alla piazza Funtanedda. Il piazzale utilizzato per la chiamata dei giornalieri era una specie di recinto, formato dalle casupole addossate le une alle altre e aperto in direzione della campagna, che ricordava i grossi massi disposti ad emiciclo a delimitare lo spazio antistante la tomba dei giganti (sa tzente manna) che si trovava fuori dal paese nei pressi del nuraghe Antigu. Dalla piazza si dipanavano due anguste strade sterrate lungo le quali, ogni tanto, si aprivano gli accessi ai modesti appezzamenti, ma si affacciavano anche i bei portali ad arco di una mezza dozzina di ricche tenute. L'ordine di arrivo sulla piccola piazza veniva rigorosamente rispettato nell'occupazione dei posti all'interno delle tre, quattro file disposte a semicerchio. Ciascuno dei due o tre caporali sceglieva gli zappatori (cinque o sei al massimo) assunti per la giornata. Le chiamate dei lavoratori venivano completate in pochi minuti, seguendo una prassi consolidata: ciascun caporale chiamava un solo prescelto per volta e così tutti gli altri capisquadra, a turno, sino ad esaurire le assunzioni previste per quella giornata. I molti che rimanevano esclusi dalla chiamata non prendevano immediatamente la strada del ritorno a casa; si trattenevano ancora per commentare le scelte appena concluse e che provocavano spesso accese discussioni e contestazioni sul metodo delle chiamate. Le lamentele, essendosi ormai allontanati sia i selezionatori sia i fortunati zappatori prescelti, si accendevano dapprima quasi in sordina, con l'impressione che nessuno avesse voglia di rinfocolare il dibattito. La discussione, dopo le prime pacate battute, assumeva però un crescendo condito di aggettivi forti ed espliciti che la limba esprimeva alla perfezione. Si citavano interventi del parroco e presunte simpatie politiche; cognomi collegati ad altri cognomi più importanti; si accusavano alcuni di avanzare inesistenti diritti derivanti da mutilazioni mai appurate. E talvolta venivano innescate sommesse e pruriginose chiacchiere sulle mogli, fidanzate, sorelle e cugine dei prescelti. Trattandosi, in ogni caso, di una lotteria senza troppe costanti fisse, questo genere di chiacchiericcio finiva con lo sfiorare, un giorno dopo l'altro, un po' tutti i presenti, gli assenti, i trapassati, gli uomini e le donne, i ladri e i latitanti, gli scapoli e gli ammogliati, i residenti e gli emigrati. Il ritorno a casa dei giornalieri disoccupati avveniva in modo diluito, quasi alla chetichella, a piccoli gruppi. Spesso alcuni di loro evitavano di percorrere lo stradone e la piazza della chiesa parrocchiale per evitare fastidiosi incontri e le solite imbarazzanti domande di coloro che conoscevano già la risposta. E quel tono canzonatorio che trapelava dalla scontata domanda: “già finita la giornata?” cui seguiva un risolino deformato da una ironia provocatoria che faceva rivoltare le budella e infuocare gli animi di coloro che dovevano soffocare l'istinto di fracassare la testa di quegli sfaccendati cronici, che neanche ci provavano ad averla la maledetta giornata. E i poveri disgraziati giornalieri in bianco si vedevano costretti a trasformare la loro ira repressa in incomprensibili mugugni accompagnati da un gesto della mano diretto ad allontanare il beffardo interlocutore e ad accantonare il devastante impulso, sempre in agguato, di utilizzarla la zappa, e con virile violenza, per chiudergliela quella maledetta bocca, per sempre. (Da: La danza del drago)

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